Paradossi spaziotemporali all’Antoniano

Paradossi spaziotemporali all’Antoniano

Sono convinto che esista qualcosa che lega indissolubilmente le cose fra loro, sia quelle che esistono, sia quelle che sono state, sia quelle che saranno. Poi ci sarà chi è d’accordo con questa intuizione e cercherà di spiegarla con la legge universale di conservazione dell’energia, o chi la giustifica citando Dio, o chi viceversa è convinto che tutto sia dominato dal caso. Io non so chi abbia ragione (se mi chiedete un consiglio penso che seguire Gesù possa essere di grande aiuto nello scoprirlo), però a volte succedono fatti che, sì, ai miei occhi rendono davvero visibile quella grande armonia nella quale nonostante tutto siamo immersi.

Ad esempio, mi è capitato questo.

Prendete un frate. Un francescano che prima di essere un frate è l’ennesimo figlio di una famiglia numerosissima che vive in un paesino sull’appennino romagnolo. Immaginate che da bambino questo frate venga messo quasi a tradimento in un convento, ma che poi la cosa gli piaccia. Allo scoppio della guerra, la Seconda Guerra Mondiale, lui decide che deve andare al fronte, per senso del dovere, e lo mandano a fare pressappoco l’infermiere in Albania. Ma una divisa è una divisa, per cui dopo l’8 settembre 1943 il nostro frate viene catturato dai tedeschi, e portato prima in Ucraina, poi in Polonia, in un lager. E lì patisce la fame. Una fame terribile, che noi non riusciamo nemmeno ad immaginare, alla quale si aggiungono il freddo e la violenza bestiale fra uomini abbruttiti a cui deve assistere quotidianamente. Senza soluzione di continuità. Ma lui trova la forza di scherzare, pur di sollevare il morale ai suoi compagni di sventura. E, quanto alla fame, fa due cose. La prima, promette a sé stesso che se si salverà da quella situazione farà qualcosa per i poveri, che la fame la patiscono tutti i giorni. La seconda, una mattina per alleviare come può le sofferenze dei compagni finge che la neve caduta sul lager sia pane, pane fragrante appena sfornato, e tutti ne mangiano grandi boccate. Tutto normale, si dirà, per un frate. Tutto eccezionale, penso io, per un uomo in quelle condizioni. Poi altre sofferenze, ed episodi buffi, a guerra finita, fino al rientro in Italia, a Bologna, al convento dell’Antoniano. Dove quella mensa sì, riesce a crearla. Perché di quel periodo storico si ricorda la Guerra, la Resistenza, ma forse sarebbe il caso di parlare della Ricostruzione, di come i nostri nonni si sono rimboccate le maniche, tutti assieme, e hanno trasformato un paese di macerie fisiche e morali in una delle massime potenze industriali e culturali del mondo. E ancora una volta è per caso, o forse no, che a un frate, in un convento dedicato a Sant’Antonio, che per primo rese omaggio alla figura del bambinello, viene l’idea di accettare la proposta di un giovane, che l’anno prima ha organizzato a Milano una specie di festival di Sanremo per bambini. I frati discutono, l’idea viene accettata e il “festival” si replica a Bologna, e viene trasmesso per televisione. È  una grande novità, un enorme successo di pubblico ma un disastro dal punto di vista economico, con un passivo di cinque milioni di lire. Proprio quando si decide di non ripetere l’esperienza, una coppia di pensionati entusiasti del programma dona esattamente quella cifra, senza conoscere l’importo necessario. Il Festival per ragazzi, in un mondo che di tempo per i bambini ne ha davvero poco, continuerà.  Intanto una giovane studentessa di pianoforte comincia a insegnare canto a un coro davvero piccolo, di soli sei ragazzi, per accompagnare le canzoni del nuovo Festival. E lo fa con amore, insegnando loro non solo la musica, ma anche i valori, soprattutto quelli dell’amicizia e lavoro.  Poi il Festival cresce, c’è bisogno di qualcuno che ne curi le relazioni con la stampa, e se ne occupa una giovane giornalista e scrittrice. Che un giorno durante un viaggio in auto da Roma a Bologna si fa raccontare dal frate la storia della sua vita. E la trova bella, e vuole scriverne, ma il frate non vuole, per modestia, che si faccia una sua biografia. Allora la giornalista pensa di fare di quelle preziose confidenze un romanzo, dove devono modo essere presenti dei ragazzi, e cerca un editore, ma per anni non lo trova. L’idea rimane nel cassetto, finché un giovane editore di un paese della Ciociaria si mostra interessato. Allora la giornalista, non più giovane, decide di scrivere assieme a me un libro dove il frate racconta la sua vita a un ragazzo, che potrei essere io di tanti anni fa. Così nasce un libro in cui alcuni decenni di storia italiana (non quella dei libri, sapete, ma quella di persone in carne ed ossa) si intrecciano con le vicende di un adolescente. Il romanzo ha un discreto successo e così alcuni anni dopo ottanta ragazzi e le loro insegnati, tutti di Sora, dopo averlo letto vengono a Bologna in visita al luogo dove ha vissuto il frate. Il frate non c’è più, e nemmeno la giornalista, ma ci siamo io e il Direttore di Produzione delle trasmissioni che nel frattempo vengono realizzate in uno studio televisivo di cui quel convento si è dotato. Uno studio televisivo, un cinema e tante altre cose, tutte finalizzate a sostenere la mensa dei poveri, che continua ad esistere, e altre iniziative di bene così numerose e importanti che non basterebbe un romanzo per parlarne. Tutti assieme guardiamo un breve filmato che racconta la vita del frate, io parlo ai ragazzi di come è nato il libro, del frate e della giornalista, e il Direttore di Produzione spiega ai ragazzi come si fa la TV: ad esempio di come uno studio televisivo piccolino possa sembrare enorme dentro lo schermo, e di come grazie al lavoro di tante persone il medesimo studio possa servire sia per un festival di musica per ragazzi sia per la scenografia di un racconto di mostri. Poi si va a vedere la sala dove il coro, che non è più tanto piccolo, ma dieci volte quello che era, fa le sue prove. Come un papà il Direttore di Produzione racconta di quanti sacrifici facciano i piccoli coristi, che devono provare tutti i giorni, per ore, dopo la scuola. Soprattutto spiega che per volontà dei frati e della maestra di musica in quel posto, nonostante il duro lavoro, i ragazzi siano considerati sempre come tali: fanno cose da ragazzi, cantano canzoni da ragazzi, non sono piccoli divi ma giovani persone, rispettate e amate, aiutate nell’esprimere i loro talenti. Io lo so che è così, perché ne conosco di quei bambini, che oggi non sono più tali, ma persone giovani o adulte, che non hanno perso la voglia di stare assieme, e di cantare, e di fare cose belle, e in una parola di essere una famiglia. Così mentre una ragazza suona il pianoforte della maestra di canto che non è più con noi, e poi tutti i giovani studenti e le loro professoresse cantano in coro una canzone da bambini, io sorrido. Perché anche se le voci sono di ragazzi e le canzoni infantili, è giusto così, ed è bellissimo ascoltare un Direttore di Produzione dire le stesse cose che avrebbero detto il frate, la maestra e la giornalista. Allora sì, penso che davvero ci sia un’armonia che lega tutte le cose, e che lo spazio e il tempo in fondo non contino  nulla, perché le cose buone sono destinate a durare, e una grande idea troverà sempre qualcuno disposto a farsene carico e a portarla avanti.

Il frate è Ernesto Caroli, la maestra di canto è Mariele Ventre e chi ne continua la missione è Sabrina Simoni, la giornalista è Gina Basso, il festival è lo Zecchino d’Oro. L’Antoniano è l’Antoniano, con le sue persone e la loro ospitalità. Il libro è “Quando la neve sapeva di pane”, di Psiche e Aurora edizioni, e l’editore è Luca Leone.  Il Direttore di Produzione è Sergio Marzocchi, i giovani e adulti che rimangono famiglia anche se non cantano più nel Piccolo Coro, ed ho l’onore di conoscere, sono le Verdi Note ed i Vecchioni. E io, che non sono nessuno, sono io, e sono davvero grato di aver passato il 3 maggio 2018 un bellissimo pomeriggio all’Antoniano e di essermi sentito un pochino parte della sua famiglia.

Riccardo Medici

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