E’ TANTO FACILE
Una “turpe” storia di amori infantili
Cosa ricordo del 1969? Non tanto, a dir la verità, e molti di quei ricordi riguardano la TV. Eh sì, perché appartengo a quella generazione per la quale la vita si distingue in un prima e in un dopo: prima e dopo che la TV entrasse in casa. Noi a dire la verità fummo gli ultimi, fra parenti e amici dei miei genitori, ad acquistare l’apparecchio, cosa che mia madre ha rinfacciato a mio padre per circa un cinquantennio. Così, una volta presa la decisione, fu giocoforza procurarsi l’ordigno più moderno disponibile sul mercato: da ultimi a possedere la televisione, diventammo i primi a possedere un televisore con il telecomando. Un telecomando, beninteso, non come quelli attuali, sottili, pieni di tasti colorati, silenziosi. Si trattava di uno scatolotto grande e spesso all’incirca come un paio di mazzi di carte, con un unico tasto, di dimensioni imbarazzanti, che premuto produceva il rumore metallico di una frustata sul cofano di una utilitaria. L’effetto, prodigioso, era quello di far cambiare canale al televisore: dal primo al secondo, dal secondo al primo. Allora, infatti, c’erano solo due canali RAI, e tale era l’elegante cortesia vigente fra le due reti, che quando su di un canale iniziava un nuovo programma, sull’altro in basso a destra dello schermo appariva un triangolino bianco. Così persino io, un bambinetto di 5-6 anni, senza alzarmi dalla sedia potevo scatenare il rumore metallico, far decollare i passerotti dal balcone, e cambiare canale per vedere cosa stesse cominciando.
Dicevo del clima elegante e misurato che caratterizzava le trasmissioni RAI dell’epoca. Nessuna parolaccia, abiti lussuosi, cortesi annunciatrici che ti spiegavano il palinsesto… era questo lo spettacolo offerto a me e ai miei genitori, che davanti allo schermo stavamo sul divano, io al centro e loro ai lati, perché i Simpson non hanno inventato nulla. Eppure erano già gli anni della contestazione, e Paolo Villaggio interpretava Professor Kranz, che maltrattava il pubblico. Noi guardavamo un po’ perplessi quelle esibizioni, pensando in cuor nostro che non era il caso di trattare così la gente, e che sarebbe stato preferibile uno stile più cortese e formale perché in fin dei conti eravamo pur sempre un pubblico pagante. Poi ci guardavamo con la coda dell’occhio e, per sembrare moderni, si diceva in coro: “Però, che forte, eh!”.
Fra le grandi novità della TV c’era lo Zecchino d’Oro. Canzoni per bambini cantate da bambini: una vera rivoluzione, in quell’epoca dove l’infanzia era una parentesi da chiudere in fretta, alla quale dedicare ben poca attenzione se non per ribadire l’imperativo “Crescete al più presto!”. Così, davvero rivoluzionaria doveva apparire agli adulti l’attenzione costante riservata ai più giovani nel palinsesto RAI. C’era la TV dei Ragazzi, una fascia oraria dedicata dalle 17 alle 18 dei giorni feriali, con programmi pensati e realizzati ad hoc. Ricordo una trasmissione dove le voci fuori campo di un papà e di un bambino commentavano le immagini che illustravano la vita degli animali… ma non quelli del Serengeti, bensì rane, lucertole, mosche… tutti gli esserini che potevamo incontrare uscendo di casa, ed era un modo molto efficace per imparare ad osservare quello che ci circondava. C’erano le avventure narrate con pupazzi di gommapiuma di Maria Perego, c’erano “contenitori” dove si insegnavano ai più giovani piccoli lavoretti da ripetere a casa “con l’aiuto di mamma e papà”… incredibile, vero? Al giorno d’oggi, che la rivoluzione è una cosa bell’e che fatta, e che sia ha tanta attenzione per i più deboli, non c’è nulla di simile, solo spot pubblicitari intervallati da cartoni animati d’importazione o varietà imperniati su bambini robotizzati. Nel sistema educativo dispiegato dalla RAI a due canali, invece, i piccoli avevano spazi a loro dedicati anche all’interno dei Varietà di intrattenimento per gli adulti, così che le diverse generazioni potessero riunirsi in armonia davanti all’unico apparecchio televisivo disponibile in casa.
Mi ricordo che le domeniche pomeriggio del ’69-’70 la mia famiglia mononucleare guardava “La domenica è un’altra cosa” presentata da Pisu, con Ric e Gian, altri comici e subrette dell’epoca, e il pupazzo Provolino. C’era anche la sigla finale, cantata dal Piccolo Coro dell’Antoniano, fondato da Mariele Ventre nel 1963, anch’esso rivoluzionario per l’epoca, ma di quelle rivoluzioni attente alle persone e ai più piccoli. A me di quella trasmissione importava un’unica cosa: la sigla finale, appunto, “E’ tanto facile”. Perché guardandola ebbi il mio primo colpo di fulmine.
Nella sigla i piccoli coristi invadevano lo studio della trasmissione pieno di palloncini. La cosa era perfettamente in linea con il testo della canzone, che parla appunto di palloni gonfiati, di fronte alla boria dei quali ci si può solo comportare così:
“È tanto facile, non è difficile:
prendilo come ti capita,
gonfialo e dopo pungilo
e lui fa BUM!”
Però… però rivediamo la scena con gli occhi di un bambino di cinque anni di quasi cinquant’anni fa. A quell’epoca uno degli status symbol più ambiti erano i palloncini. Sì, quelli che si vendevano ai giardini Margherita, colorati (monocromatici, ma di diversi colori), pieni di elio, volanti. Quelli per evitare i quali i papà al parco inventavano percorsi labirintici, ma poi ce li compravano, noi li facevamo scappare quasi subito, per cui bisognava comprarne un secondo che ci veniva legato al polso. E, mentre i nostri austeri padri si chiedevano se per caso avessero fatto dei bimbi scemi, noi si traevano grandi lezioni di vita da tutto ciò, indecisi se godere del piacere breve e intenso di guardare il palloncino sparire in alto nel cielo, o pregustare l’emozione misurata di tenere con sé il gioco avendone un controllo assoluto nel parco, portandolo a casa nella speranza che gli amichetti del cortile potessero vederlo, e quindi lasciandolo libero contro il soffitto della cameretta, felici per esserci finalmente affrancati dalla cordicella che ce l’assicurava al polso. Insomma, in un contesto del genere è evidente come quello studio pieno di palloncini dovesse apparire ai miei occhi come una esibizione di lusso sibaritico. E il fatto che i bambini dell’antoniano, ben vestiti e allegri, potessero giocare con quei palloni, lanciarli, farli scoppiare, prenderli a calci, senza che quelli volassero via, rendeva loro, già divi, piccoli dei.
Infatti non a caso la prima solista ad interpretare la canzone era Cristina d’Avena. Bellissima, con i codini, sorridente, lo sguardo birichino, camminava indisturbata in quella confusione, come Beatrice per la via, cantando benissimo. Ma, appena la telecamera si distraeva per inquadrare i piccoli coristi scorrazzare per lo studio, eccola: appariva lei. Nella confusione stava ferma, le mani dietro la schiena, già pronta ad interpretare la sua parte, ieratica. Poi eccola di nuovo, dare un calcetto a un pallone (ma con che grazia, eh!), spingere (ma con cortesia, eh!) una sua amica perché non rovinasse l’inquadratura infine, con un gesto autorevole come quello dell’Apollo di Olimpia, indicare a un’altra bambina la posizione da assumere. Finalmente, come una femmina adulta, si metteva a posto i capelli. Ce n’era più che abbastanza per attirare la mia attenzione. Il secondo brano solista era appannaggio di un ragazzino che non mi suscitava particolari emozioni, se non una leggera invidia per ruolo, vestiti e situazione: poteva andare bene per giocarci a nascondino, ecco, con lui che si nascondeva. Lei era lì, sullo sfondo, e guardava l’amichetto con uno sguardo attento ed esperto simile a quello di Mariele quando dirigeva i suoi bambini. Ma il terzo brano solista… ecco, alle parole “C’è sempre uno che vuole comandare” mi sembrava di volare, anzi di lanciarmi senza paracadute da una nuvola. A cantare era proprio lei. Elegante con la sua gonnellina, la camicetta bianca e il pullover, la pettinatura alla maschietta, forse non bella come Cristina d’Avena ma quel che si dice un “tipo”: comunque io la trovavo bellissima perché somigliava un po’ a Rita Pavone e un po’ a mia nonna. Pativo per lei quando un pallone l’urtava durante l’interpretazione, e avrei voluto volare nello studio brandendo un ago gigante per difenderla da simili offese. Ma lei, superiore alle ingiurie della vita, continuava a cantare come se nulla fosse, e quando guardando fuori camera intonava “però, però, però…” era più fatale di Mina in “Parole, parole, parole”. Io ne venivo totalmente conquistato: cosa succedesse dopo nella sigla non ve lo saprei dire, perché giacevo lì, sul divano, inerme fra i miei genitori ignari, con il cuore fermo e il cervello spappolato, travolto dalla forza dell’amore.
Questa estasi si ripeteva ogni domenica. Almeno finché non mi venne in mente che, in realtà, io ero un uomo già impegnato. Sì, perché avevo già una fidanzatina, e ufficiale per giunta. No, non parlo di Roberta, che all’asilo con i capelli a caschetto e la sua abilità nel giocare a palla avvelenata aveva fatto palpitare il mio cuore per qualche settimana. Parlo di lei, la trecciuta Daniela. Era successo che mia madre aveva fatto amicizia con la moglie del nostro medico di famiglia, che loro avevano una figlia, più grande di me di un anno, e che spesso passassimo pomeriggi tutti assieme, e organizzassimo piccole gite.
Daniela mi sopravanzava in tutto: in età, come ho detto, ma anche nella capacità di imporre la sua volontà ai genitori, e nella conoscenza del mondo. Lei, donna vissuta, era sempre informata su quale fosse il cantante più in voga, su quale fosse l’ultima moda nei vestiti per la Barbie, su cosa facessero i VIP. A tutto questo io potevo opporre solo la frequente lettura dei fumetti di Topolino: lei accoglieva con indulgenza le mie citazioni poi mi diceva di portare il suo cane di peluche a fare pipì in corridoio. In poche parole, ero il suo toy boy.
Fu così che, assieme al primo colpo di fulmine, sperimentai anche l’umiliante batticuore che si accompagna agli amori clandestini. Cosa sarebbe successo se la trecciuta avesse saputo della mia travolgente passione? Ma, ancora più grave, come avrei potuto coronare il mio amore e conoscere di persona quella sirena che, pur cantando “E’ così facile, non è difficile”, restava sideralmente irraggiungibile?
Un ulteriore tormento per la mia voluttà fu scoprire che la sigla era stata ospitata in un 45 giri che in copertina aveva un simpatico disegno con bambini dai capelli arancioni (il mio colore preferito del momento) e, incredibile a dirsi, una foto in bianco e nero che ritraeva proprio lei, la bellissima. Questo tributo al suo carisma da parte del fotografo, del grafico che aveva disegnato la copertina, della casa produttrice dei dischi, dei frati dell’Antoniano, di Mariele e del Destino non poteva che confermarmi nella mia passione. Così portai come per caso mia nonna, quella che le somigliava, davanti alla vetrina di un negozio di dischi in piazza Mikiewicz, che dopo poco divenne un negozio di caramelle e ora, appropriatosi di un insospettabile retrobottega, è una banca. Lì, in vetrina, c’era il 45 giri dei miei desideri: alla fine la nonna me lo comprò.
La foto della mia amata divenne oggetto quotidiano di venerazione, e mi sforzavo di riprodurre il disegno dei bambini che si trovava sul disco per poterle offrire in omaggio, quando l’avessi incontrata, quella mia opera assieme a un fascio di rose.
Però quando incontravo la trecciuta, la mia coscienza non mi dava pace. Così un giorno pensai che fosse giunto il momento di parlargliene, di questa cosa che mi era successa, e attendere gli eventi. Presi la faccenda alla larga: mentre eravamo in camera mia a giocare le mostrai la copertina e infilai il vinile nel mangiadischi arancione. Lei ascoltò la canzone senza manifestare alcuna emozione, e alla mia richiesta di fare il bis rispose che no, non era il caso, era meglio ascoltare un disco di Renato Rascel, che aveva visto nella pila di quelli dello Zecchino, perché le sembrava intellettualmente più stimolante. Come un automa, non sapendo che pensare, presi “E’ tanto facile…”, lo rimisi nella copertina, poi davanti ai primi segni di impazienza della trecciuta appoggiai il disco sulla poltrona e mi precipitai a inserire Rascel nel mangianastri. La trecciuta, assunta l’aria annoiata e vacua tipica degli intellettuali anni ‘70, con una piroetta piombò a sedere sulla poltrona. Schiacciando irrimediabilmente il disco e il mio amore.
Non so come ressi al dolore, forse solo per via della giovane età e delle condizioni fisiche eccellenti. Per dovere d’ospitalità evitai di far pesare alla trecciuta lo scempio che aveva appena commesso del disco e della mia vita, ma ricordo ancora quel pomeriggio come uno dei più tristi di sempre. Così, mentre lei ascoltava Rascel, io pensavo che quanto era successo rappresentava un lampante caso di punizione divina per il mio amore irregolare, che bisognasse imparare la lezione una volta per tutte, e pertanto giurai solennemente a me stesso di rinunciare per sempre alla fatale cantante.
La copertina con la foto della bellissima, però, rimaneva lì a tentarmi. Di più, non sopportavo di non poter ascoltare a comando la sua angelica voce, attività assolutamente necessaria per allenarmi ad esserle indifferente e confermarmi nel proposito di dimenticarla.
Così portai di nuovo mia nonna in piazza Mikiewicz e, dopo averle raccontato i fatti (non certo i miei sentimenti), presi ad insistere per avere una seconda copia del disco. Benché fosse restia a soddisfare ancora il mio desiderio di possedere il vinile già acquistato di una canzone che potevo riascoltare gratis ogni domenica, alla fine mia nonna cedette.
Eppure, questo secondo disco era diverso. La copertina, prima di tutto. Era sempre ritratta lei, la bellissima, ma i bambini del disegno avevano ora i capelli gialli, non più del bell’arancione della versione precedente. Anche la qualità del suono mi sembrava minore.
Ma, poiché “Giove dall’alto sorride degli spergiuri degli amanti”, già i miei sentimenti si stavano orientando verso la ricciolina Graziella, la mia compagna di banco che mi rimetteva in ordine l’astuccio. E mi confortava non poco sapere che, se la trecciuta le si fosse seduta sopra, la ricciolina avrebbe saputo difendersi.
Riccardo Medici
Maggio 2017
E’ tanto facile!
Castellano – Pipolo – G.Kramer
1969 Piccolo coro dell’Antoniano diretto da Mariele Ventre
Sigla finale del programma della domenica pomeriggio “La domenica è un’altra cosa”
Solisti: Cristina D’Avena, Riccardo Rubini & Federica Poli
È TANTO FACILE
Conosco un tipo grosso grosso e tondo
che parla tanto perché ha girato il mondo,
ma a furia di parlare
si gonfia da scoppiare,
l’ho già fotografato:
è un gran pallon gonfiato
però però però…
È tanto facile, non è difficile:
prendilo come ti capita,
gonfialo e dopo pungilo
e lui fa BUM!
Conosco un tipo che sembra un monumento
con un pancione dai piedi fino al mento,
se tu lo stai a sentire
si gonfia da morire
oh mamma che impressione!
è tanto un gran pallone
però però però…
È tanto facile, non è difficile:
prendilo come ti capita,
gonfialo e dopo pungilo
e lui fa BUM!
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