Do un ultimo sguardo alla sveglia. È già tardissimo.
Non sono particolarmente convinto di mettermi a letto, potrei leggere ancora qualche pagina di un libro, ascoltare un po’ di musica su internet o magari guardare per l’ennesima volta un episodio della mia serie preferita, ma, conscio che un’altra giornata è ormai giunta al termine e che domattina proprio non posso fare tardi in facoltà, mi avvicino al comodino.
Sarà un giorno importante, domani.
Tutto il lavoro degli ultimi anni ed un percorso formativo durato praticamente una vita avranno il loro coronamento quando mi troverò lì, con gli occhi di tutti addosso, ad esporre davanti a un gruppo di importanti professori il frutto dei miei ultimi mesi di ricerca.
Faccio per spegnere la luce, quando a un tratto lo sguardo mi cade su quella vecchia foto accanto all’abat-jour. Non so bene perché, ma per qualche motivo non l’ho mai voluta togliere da lì, anche se la carta si è ormai ingiallita da tempo e pure la cornice ha decisamente visto giorni migliori. A campeggiare c’è il sorriso sdentato di un bimbo dalla faccia un po’ buffa che, scrutando curioso verso l’obiettivo che ne tramanderà il volto a distanza di anni, si domanda se chi un giorno quell’espressione potrà guardarla eternizzata sarà ancora in grado di comprendere ciò che la caratterizzava.
Fa un po’ strano, in effetti. Ricordo ancora perfettamente il pomeriggio autunnale in cui la scattai, mentre invece adesso mi preparo a compiere il passo che mi proietterà per sempre verso un altro mondo. Per un attimo neanch’io so più chi sono.
Mi siedo sul letto e prendo in mano la mia tesi, quando, giunto svogliatamente alla pagina dei ringraziamenti, tra le altre leggo quella frase: “Grazie allo Zecchino d’Oro, certezza che è sempre stata presente e che mi permette ancora di credere che nel mondo esista della magia”.
Con il pensiero torno a qualche mese prima, ai sapori di antichi e vivaci sabati bolognesi, e all’istante diventa tutto ben più chiaro.
Sì, perché di strada ne ho fatta da allora. Da semplice bambino in fissa con le sue canzoncine sono diventato ora membro attivo dello staff organizzativo, e per il terzo anno consecutivo a Novembre mi sono diretto a Bologna per entrare nel cuore dell’Antoniano come animatore dello Zecchino d’Oro. Il primo contatto con questo ambiente a dire il vero l’ho avuto un po’ per caso: avevo scritto un testo abbastanza simile a questo che era stato pubblicato sulla sua bacheca nientemeno che dalla pagina ufficiale, quando nella casella di posta mi ritrovai un messaggio di un tale Lorenzo Buttazzi.
Non avevo proprio idea di chi fosse, mai mi sarei potuto aspettare che in quel momento una storia già di per sé fantastica sarebbe andata a sfociare nello straordinario.
Lorenzo era uno degli animatori, aveva letto quelle mie righe e mi spiegò che se lo Zecchino era così importante per me, potevo tranquillamente entrare a farne parte anch’io: in fondo bastava solo mandare una mail di candidatura all’Antoniano e aspettare una risposta. Così, senza più scuse e con il timore di non riuscire a trovare le parole giuste, il primo di Settembre presi di getto il computer e in qualche modo la inviai, mentre l’attesa del responso definitivo previsto per un paio di mesi dopo diventava di giorno in giorno più opprimente. Quando alla fine lo ricevetti ero addirittura in scambio universitario in Germania, ma, ricoperto di brividi dalla testa ai piedi e sapendo di andare a trovare un’atmosfera del tutto fuori dal comune, non mi feci remore nel lasciare il mio posto al sole sul lago. Fu l’inizio di tutto.
Da allora non solo ho conosciuto di persona Lorenzo, che proprio non posso smettere di ringraziare, ma anche decine di altri ragazzi con la mia stessa immensa passione e con la stessa voglia di perseguire un ideale. Anche questa, se vogliamo, è una piccola scintilla di magia: illustri sconosciuti provenienti dai posti più sperduti d’Italia (e non solo) che si ritrovano a stringere legami di amicizia fortissimi, a confidarsi, a divertirsi, a condividere emozioni, a raccontarsi le proprie storie e a diventare l’uno per l’altro dei punti di riferimento costantemente presenti, anche se spesso molto lontani nello spazio. E quando quella volta all’anno ci si ritrova tutti insieme, non sorprende affatto che l’atmosfera tra di noi sia quella di chi in realtà non si è mai davvero separato e che le ore che si trascorrono volino come le più allegre e spensierate. E se è vero che adesso dopo tre anni e più in qualche modo sono diventato una faccia nota anch’io, già dal primo momento del mio primo giorno all’Antoniano, tutto il gruppo mi ha accolto come se avessi già da sempre fatto parte della loro famiglia. Uniti dai valori che lo Zecchino trasmette, non potevano che tendere una mano verso la mia, aprire con me il portone d’ingresso per quel mondo fantastico e lasciarmi finalmente entrare nel luogo che da sempre aveva accompagnato i sogni del piccolo protagonista della foto da cui è partito questo viaggio. Tutto era esattamente come se l’era sempre immaginato. E non poteva proprio essere altrimenti.
Non potevo crederci. Adesso toccava a me tenerlo aperto quel portone, toccava a me tramandarli quei valori, ed io, che in essi tanto mi riconosco, stavolta proprio non potevo fallire. Quell’ambiente utopico e così straordinariamente variegato che permette anche ai più piccoli di crescere abbattendo le differenze e coltivando l’amore verso gli altri, quel clima istruttivo e solidale che tanto chiaramente tende a far diventare persone migliori e quell’atmosfera pura, felice e giocosa che io sin da sempre avevo definito come mia erano ora diventati la mia casa per davvero, e non più soltanto nei miei pensieri. I sogni in cui avevo sempre vissuto potevo trasmetterli io agli altri, l’aiuto di cui avevo bisogno da piccolo potevo finalmente portarlo io, come in un ciclo che trova la sua chiusura perfetta e inevitabile in uno nuovo che inizia. E che, per forza di cose, si conosce già.
E allora forse non può essere un caso che i miei primi passi all’Antoniano come animatore dello Zecchino si possano ergere a simbolo della mia storia, come si trattasse di un segno che trascende una narrazione lineare e che costringe a tornare a guardare indietro, lì dove curiose e sorprendenti si palesano coincidenze che però appaiono piuttosto come ovvie conferme di un finale previsto ma meraviglioso.
Come all’inizio di ogni puntata, c’erano da portare i bambini del pubblico dentro lo studio televisivo, ed io per la primissima volta mi apprestavo a svolgere il ruolo di aprifila. Un po’ emozionato ma pronto per il mio compito mi misi in posizione, quando la prima a dirigersi verso di me fu una bimba che piangeva disperatamente, spaventata forse dall’ambiente sconosciuto o più probabilmente dalla lontananza dalla mamma e dal papà che si sarebbe protratta per tutta la puntata. Ebbene, non so come, ma nel corso del breve tragitto per arrivare alla porticina d’ingresso per il pubblico non solo riuscii a tranquillizzarla e a farla smettere di singhiozzare, ma la feci anche ridere e la vidi prendere posto serena in volto e col sorriso di chi stava per veder realizzato un desiderio che per un momento era sembrato perduto.
Inutile dire le sensazioni che mi regalarono allora quegli istanti e quelle che ancora mi provoca oggi il solo pensiero. A tratti ricordo anche che cos’è che le dissi, ma a dire il vero non mi sembra di aver fatto proprio nulla di eccezionale: in fin dei conti avevo davanti il mio passato, sfidarlo era troppo facile. Sapevo già perfettamente come sconfiggerlo.
Abbasso per un attimo lo sguardo, poi giro il volto verso destra e torno a guardare quella vecchia fotografia. Allungo il braccio e la prendo in mano continuando a fissarla, mentre lentamente sul mio viso comincia a scendere una lacrimuccia. Non di nostalgia, quella non l’ho mai avuta, ma per la bellezza del sentimento che questo fortissimo legame esprime. Per lo stesso motivo per cui, anche se in questi anni sarebbe ormai dovuto diventare un’abitudine, non c’è mai una singola volta in cui – credetemi – durante il viaggio per arrivare all’Antoniano io non mi commuova di gioia ringraziando quelle emozioni.
Riconosco il mondo che vedo, guardando il suo sorriso. È quello di un bimbo che, travolto nella sua infanzia da cambiamenti tanto repentini quanto indesiderati, si è ritrovato da solo e con il bisogno di crearsene uno tutto suo. Uno in cui poteva rifugiarsi da un esterno terribile e crudele, in cui poteva ricominciare a giocare, riprendere a sognare, rimparare a vivere e soprattutto ritornare a credere che in fondo una speranza in quello vero poteva avercela anche lui.
E in tutto questo il ruolo dello Zecchino è sempre stato fondamentale, parte attiva e basilare di quell’universo interiore necessario per restare in vita. Certezza che, non importava il momento – se triste o felice, se entusiasta oppure asfittico –, restava sempre insieme a me e che sapevo vivere ogni giorno nell’attesa che, come ogni anno, a Novembre ritornasse. Con il tempo e l’identificazione con i suoi ideali sarei arrivato a chiamarla anche proiezione, ma oggi avere la possibilità di non commettere lo stesso errore che fu fatto con me rinforza questi sentimenti ancor di più. So bene quanto avrei voluto che qualcuno mi tendesse una mano, in quei momenti. Ora non ho alcuna intenzione di permettere che la stessa mia lotta per la vita possa ripetersi dentro qualcun altro.
Tuttavia, a differenza di tante altre storie, nella mia non c’è mai stato un momento in cui, durante la crescita, ho lasciato lo Zecchino da parte per poi riprenderlo più avanti. Certo, ora che ho trovato la completezza da sempre inseguita il valore di questa appartenenza si è innalzato, rinforzato dall’aiuto ricevuto e dalla gratitudine per l’infanzia donata, ma io questa mia passione l’ho sempre mostrata con orgoglio anche nel periodo dell’adolescenza in cui tutti intorno a te cercano di sentirsi grandi a tutti i costi. Sono sempre stato fiero delle mie emozioni e rimasto fedele ai valori che esse mi avevano trasmesso, sapevo già da allora che essere maturi significa non avere bisogno di sentirsi grandi e che quindi tutti i tentativi messi in atto per cercare di cambiarmi non potevano fare altro che cadere nel vuoto.
Non sono mai riusciti a farmi rinunciare alla mia storia. Non mi avranno mai.
Sarà un giorno importante, domani. Forse nulla sarà più come prima, è vero, eppure so già che qualcosa non cambierà.
Accarezzo un’ultima volta quel volto innocente, e nel farlo il sorriso raffigurato lì ne fa nascere un altro forse ancora più sincero. Con la manica del pigiama mi asciugo ancora l’occhio destro e poi con cura rimetto la foto al suo posto accanto all’abat-jour.
Sul comodino la sveglia, ligia al suo dovere, continua a ricordarmi l’ora.
Si è fatto tardi ormai, davvero molto tardi. Ma anche questa notte quel bambino ancora c’è.
Posso spegnere la luce. Posso andare a dormire.
Raffaele Di Filippo
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