Ci ho messo 40 anni a scoprire lo Zecchino d’Oro

Ci ho messo 40 anni a scoprire lo Zecchino d’Oro

Paolo Madeddu – Giornalista e critico musicale

Ci ho messo 40 anni a scoprire lo Zecchino d’Oro. Quando una persona che viaggiava nella mia auto seduta su un seggiolino da trasporto ha iniziato a cantare qualcosa che aveva ascoltato guardando la tv a casa della nonna, una faccenda riguardante un cane golosone ma di razza magra. E ridendo incontrollabilmente alla parola golosone.

Era il 2010, la canzone era Libus (autore: Paolo Frola) e se dal punto di vista del testo aveva un po’ di voragini concettuali, musicalmente era più contagiosa di un sacco di cose che mi toccava ascoltare come critico.

Così mi sono arreso e la canzone è entrata nella playlist da automobile appositamente creata per il trasporto della persona in questione, contenente una accurata selezione educativa di classici italiani e stranieri – naturalmente compatibili con l’età della persona (due anni): Il rock di Capitan Uncino, The lion sleeps tonight, Eri piccola così, Yellow submarine, E la vita l’è bela. Una compilation dezecchinata. Perché ero cresciuto dezecchinato anch’io.

In casa mia i dischi per bambini non ci entravano, e quanto alla trasmissione, veniva spensieratamente cassata da genitori e fratelli maggiori, tanto che sinceramente non sapevo nemmeno che esistesse. A 6 anni mi sapevo già orientare decentemente tra le canzoni dei Beatles (che poi, a guardarli sulla copertina di Sgt. Pepper, non so quale bambino avrebbe potuto rimanere indifferente) però il primo disco che ho messo sul giradischi da solo è stata una raccolta dei Rolling Stones: misi inconsapevolmente il lato B e ricordo ancora come rimasi affascinato dal suono selvaggio del tamburo di una canzone intitolata Street Fighting Man (ho scoperto decenni dopo che per quell’inno sovversivo avevano usato un tamburo giocattolo – e qualcosa vorrà pur dire); di lì a poco sarei stato travolto da una musica stranissima e inquietante (Genesis, Watcher of the skies) e dall’assalto di guerrieri vichinghi (Led Zeppelin, Immigrant song). In tutto questo, che i miei coetanei ascoltassero canzoni PER BAMBINI mi sembrava inconcepibile.

Ogni tanto, tramite qualche compagno di scuola o dai giornalini, mi arrivava qualche segnale che esisteva una cosa chiamata Zecchino d’Oro. Poi, a un certo punto, ricordo un nastro di una mia cuginetta, contenente una canzone intitolata Riccardo Cuor di Leopardo (testo: Gina Basso; musica: Bruno Canfora).

E non era male. Aveva carattere, sia nel testo antimilitarista, che nell’interpretazione Giampaolo Bisanti, oggi direttore d’orchestra – e qualcosa vorrà pur dire). Però, sinceramente, le altre canzoni mi parevano infantili (ebbene sì) quindi in sostanza mi convinsi che avrei certamente ignorato lo Zecchino d’Oro per tutto il resto della mia vita.

Non è andata così.

Perché nel 2011, sempre tornando da casa della nonna, la persona cui accennavo all’inizio, ormai diventata una assertiva 3enne, mi impose di cercarle una composizione intitolata Un punto di vista strambo (autore: Flavio Conforti).

E non era male (…neanche lei). Tra l’altro, credo che il titolo riassuma una delle caratteristiche dei brani migliori (Nella Mia Umile Opinione) dello Zecchino d’Oro: il sovvertimento delle aspettative, come quello dello scombinato Popoff che sopravanza i fieri cosacchi dello zar, o la apparentemente innocua Peppina che se non sta cercando di avvelenare il marito (o qualche finanziere in carcere) sta quanto meno dando il suo contributo col suo caffé esplosivo al clima degli Anni di Piombo. E che dire dei 44 gatti riunitisi in sindacato in pieno Sessantotto, del Torero Camomillo che fraternizza col toro, della bambina che vuole il tipo di gatto nero e gramo che nessuno vorrebbe – perciò mette su una piva perché riceve un gatto bianco come Hello Kitty? E La figlia del Re di Castiglia, una principessa che NON era bellissima (chissà che problema per Corriere e Repubblica, metterla in homepage tutti i giorni come Kate e Meghan).

Così dal 2012, io e la ormai matura persona di 4 anni abbiamo raggiunto una specie di compromesso: lei non mi avrebbe costretto a guardare una roba che all’epoca era presentata da Pino Insegno, che personalmente vorrei inseguire a capo di un’orda di vandali, e io avrei aggiunto alla sua playlist, accanto ai Beach Boys e Renato Carosone, a Michael Jackson ed Elton John, avrei aggiunto alcuni brani dello Zecchino d’Oro accuratamente selezionati.

Ed è stato così che ho scoperto alcuni picchi di complessità musicale che la musica italiana se li è persi per strada da anni. Onestamente non so quanti concorrenti di Amici potrebbero cantare Popoff senza sbagliare una nota su quel pentagramma aggrovigliato – e quanto al Coniglietto Tippy, diventato hippy, forse solo Lucio Battisti nel 1967 ascoltava altrettanto attentamente il rhythm’n’blues e Marvin Gaye. E che dire di Edoardo Bennato, che non si capisce perché in concerto non esegua Lo stelliere, una delle migliori canzoni che ha scritto. Forse pensa che sia una canzone infantile. E forse un tempo avrei fatto anch’io questo errore. Invece oggi so per certo che sta benissimo subito dopo Il rock di Capitan Uncino.


I veri eroi del ’68: cinquant’anni fa, lo scontro di titani allo Zecchino d’Oro

Nell’edizione in cui debuttò una futura popstar si affrontarono 3 canzoni sottilmente antisistema. Che sono hit ancor oggi: Quarantaquattro gatti, Torero Camomillo, Il valzer del moscerino. A vincere fu l’outsider.

Era 50 anni fa, era il marzo 1968, e alla decima edizione dello Zecchino d’Oro andò in scena uno scontro di titani – un Royal Rumble tra canzoni tuttora popolarissime (potete controllare su YouTube) e molto più sessantottine di quelle che la hit parade proponeva all’epoca.
In quello che fu l’anno di Luglio di Riccardo Del Turco, Ho scritto t’amo sulla sabbia di Franco I e Franco IV e Azzurro di Adriano Celentano (…la sola a contenere elementi di insoddisfazione personale più ad ampio raggio) la generazione che negli anni 70 avrebbe contestato il “potere dromedario” – pure lui, potenziale animale da Zecchino – elesse a propri inni tre canzoni storiche e a loro modo antagoniste. Nessuna edizione precedente o successiva vide più una competizione così serrata. Ma non solo: nemmeno sul podio del Festival di Sanremo si sono mai viste tre hit altrettanto significative e longeve nella stessa annata. Forse l’unico paragone possibile è quello con le semifinali di Champions League del 2003, con Inter, Juventus e Milan a scannarsi tra loro insieme al quarto incomodo più prestigioso del mondo, il Real Madrid.
Nel libro Avant pop ’68 di Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti, Quarantaquattro gatti viene definita “l’unica vera canzone di protesta che abbia avuto un successo duraturo”. Il brano, che descrive un clima di rivendicazioni, tra sindacato e civil rights, culminante in un’assemblea in un locale underground (letteralmente: era una cantina) si misurò con un’ode a un eroe animalista e nonviolento, il gandhiano Torero Camomillo, e con un’elegia onirica e vagamente psichedelica che suo malgrado aveva molti punti in comune con la quasi contemporanea Heroin dei Velvet Underground: Il valzer del moscerino, il cui protagonista, come in preda a un “viaggio” allucinogeno,
Rideva sognava
Sognava una piuma
Un fiocco di neve
Un petalo di rosa
Caduto dal ciel
Il testo del Valzer del moscerino era di Laura Zanin, habitué dello Zecchino, e qualche anno dopo autrice di E la chiamano estate, insieme a Franco Califano e Bruno Martino. Anche gli autori di Torero Camomillo erano due veterani: il maestro Mario Pagano aveva vinto l’anno precedente con la complicatissima (pentagramma alla mano) Popoff, il paroliere Franco Maresca aveva presentato nel 1966 Il pinguino Belisario e sarebbe arrivato nuovamente secondo nel 1969 con Volevo un gatto nero (battuto da Tippy il coniglietto hippy, evidente citazione di Can I get a witness di Marvin Gaye, e chiaro tentativo di cavalcare le mode giovanili del momento – come accade da trent’anni con i brani che includono momenti di rap). Pagano e Maresca si sarebbero rifatti peraltro vincendo nel 1970 con La nave Gelsomina, della quale in verità si è persa un po’ traccia.
L’autore di Quarantaquattro gatti era invece un autentico outsider, alla sua unica partecipazione: il modenese Giuseppe “Pippo” Casarini, insegnante di musica in una scuola media di Nonantola, ma con un passato di musicista giramondo tra alberghi e night di Stoccolma, Ginevra e Calcutta. Il giorno della finale avrebbe compiuto 44 anni, e questo determinò la cifra del titolo. «Avevo letto il regolamento del concorso dello Zecchino d’Oro e decisi di tentare. Il titolo venne subito, invece sul testo ci ho pensato per 15 giorni. Ricordo che in piena notte ho svegliato mia moglie per chiederle: che ne dici di “in fila per 6 col resto di 2?” e lei mi ha risposto “Te sei matto!”». Casarini pagò le 5mila lire dell’iscrizione del brano sotto pseudonimo come prevedeva il regolamento, sensibile alle pressioni indebite. I frati dell’Antoniano conoscevano i loro polli: diversi giornalisti dell’epoca descrivono sconcertati parecchi genitori arrivisti e isterici, con buona pace della cara ingenuità dell’Italia di ieri.
«Certo non mi aspettavo che la mia canzone vincesse, la favorita era Il torero Camomillo… A Barbara, la bambina che cantò la mia canzone, regalai una bambola enorme». Anche se lei, riferiscono le cronache, avrebbe preferito «un’automobile e poi un ghiro, cioè quella cosa che gira». Barbara Ferigo di Gorizia aveva 4 anni e mezzo e due concorrenti temibili: Michele Grandolfo, cinque anni e mezzo, da San Donà di Piave, intenzionato a intraprendere da adulto la carriera di “portapatate”, e Cristina D’Avena, solamente tre anni e mezzo, da San Lazzaro di Savena, che entrò in scena in sella a un cavallo a dondolo immane (…dal quale, potremmo dire, non è mai scesa).
All’Antoniano «Tutti parteggiavano per Cristina D’Avena perché era di Bologna e sarebbe stato più semplice farla continuare a cantare», ha raccontato la signora Ferigo qualche anno fa in un’intervista al Piccolo di Trieste. La favorita della Commissione selezionatrice era invece Il topo Zorro. Le giurie di bambini, con tipico slancio sessantottino, non accontentarono nessuno. Il primo giorno, Torero Camomillo si qualificò per la finale a mani basse, con 156 voti, staccando Il valzer del moscerino (146); il giorno successivo Coriolano l’allegro caimano passò per prima, seguita da Quarantaquattro gatti. La giuria della finale – diversa dalle precedenti – premiò il brano di Casarini per un solo punto sul paso doble di Camomillo (un bambino, forse futuro autore televisivo, attese l’ultimo momento per girare la sua decisiva paletta).
Il Maestro Casarini è morto tre anni fa, ma si era già ritirato da un po’; uno dei suoi ultimi brani, Fra tanta gente, venne inciso da Luciano Pavarotti. Barbara Ferigo frequentò il Conservatorio ma non scelse la carriera musicale: laureatasi in Scienze Politiche, è stata funzionario regionale. «Quarantaquattro gatti per me era diventata un’ossessione. Mi chiedevano di cantarla ovunque, a scuola, in famiglia, nelle feste, quando veniva il Vescovo. A un certo punto non ne ho voluto più sapere». Del resto, a differenza dei tanti genitori “invadenti e presuntuosi” descritti da Vincenzo Buonassisi sul Corriere della Sera, i suoi non erano stati entusiasti dell’opportunità. «L’organizzazione aveva dei talent scout che andavano in giro per l’Italia e organizzavano teatrini dove facevano cantare i bambini. Io sono andata con dei cuginetti a Forni di Sopra e sono stata scelta. I miei genitori non erano felicissimi, è stata la nonna poi a portarmi alle selezioni all’Antoniano di Bologna. Mi ricordo che, al momento di registrare, non riuscivo a portare a termine la canzone perché volevo andare a giocare e bloccavo anche tutta l’orchestra. Hanno fatto una fatica interminabile per farmela cantare tutta! Anche Cino Tortorella si era stufato di me».
Pochi mesi dopo la vittoria, anche Mina volle cantare Quarantaquattro gatti – in televisione, nella trasmissione Vengo anch’io, in duetto col pupazzo Provolino.

Il Torero Camomillo comunque si è preso la sua vendetta su YouTube: in questo momento la versione non ufficiale della canzone conta 71 milioni di visualizzazioni, contro i 32 milioni (in fila per tre, col resto di due) di Quarantaquattro gatti sul canale del Piccolo Coro dell’Antoniano – che vale la pena di ricordarlo, fa più di 300 milioni di pageview l’anno, e in Italia è secondo solamente a Fedez. In questi giorni il canale ha pubblicato il video della sua versione di Una vita in vacanza de Lo Stato Sociale, alla quale i bambini hanno partecipato anche come ospiti del gruppo bolognese a Sanremo. In effetti alcuni di loro non sembrano affatto bambini, sembrano già iscritti al DAMS – anche se sfoggiano pose molto più cool. Per ora le visualizzazioni sono 197.925: gatti e torero possono dormire tranquilli. A tutti gli effetti, loro sono il ’68 che ha vinto.

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