La storia delle opere benefiche dell'Antoniano

La storia delle opere benefiche dell'Antoniano

ESTRATTO DAL LIBRO: La storia dello Zecchino d'Oro
Enciclopedia dello Zecchino d’Oro
“La storia dello Zecchino d’Oro” in collaborazione con l’Antoniano di Bologna
a cura di Vezio Melegari – testo Silvio Bertoldi
Rizzoli Editore – 1973

Le opere benefiche dell’Antoniano

Non si può parlare dello Zecchino d’Oro e del Piccolo Coro senza un discorso sull’Antoniano e sulle sue opere.
Occorre tornare per un momento al giorno in cui Padre Ernesto, con i trucchi descritti e con l’aiuto di tanta brava gente, riuscì a costruire il fabbricato destinato ad ospitare la sede dell’opera sognata durante la prigionia in Germania. In quel momento, con la guerra appena finita e il paese che faticosamente si sollevava dalle macerie e dai lutti, bisognoso di tutto, il punto principale era l’assistenza.  La prima iniziativa fu dunque la Mensa del povero, nel vasto refettorio al pian terreno. Chiunque poteva entrare (e può ancora oggi), sedersi, mangiare il cibo dei frati, andarsene. Ma i francescani che collaboravano con padre Ernesto capirono subito che non bastava dar da mangiare alla gente, e che l’opera di assistenza non poteva, nemmeno dal punto di vista materiale, restringersi soltanto a questo. Allora, sulla spinta dell’entusiasmo, nacquero le altre iniziative dell’Antoniano: bisognava vestire i poveri, tentare di dare loro un alloggio, soccorrerli quando erano malati, provvederli di quel poco di denaro che spesso era il solo modo per inserirli nuovamente nel lavoro e per restituire sicurezza e fiducia. Questa fu l’origine dell’Armadio del povero, delle case per i senzatetto, della Farmacia del povero, dell’Opera della raccolta, del Pane di Sant’Antonio e del Salvadanaio. Tutti rivoli per i quali la beneficenza era convogliata nell’aiuto tangibile a chi veniva a domandare per carità.
Realizzare tante idee, dar loro una forma pratica, mandare avanti una istituzione che aveva precise esigenze d’amministrazione e di spesa, era una impresa quasi disperata per quattro frati. Essi avevano scoperto un sistema abbastanza semplice, ma piuttosto avventuroso, per andare avanti: i debiti. Non era l’intraprendenza a mancargli. basta raccontare l’episodio del progetto della sede dell’Antoniano, e di come Padre Ernesto convinse il superiore provinciale a dare il via ai lavori, per farsene un’idea. Quel progetto, naturalmente, era stato disegnato gratis da un amico, l’ingegnere Remo Palazzoli, al quale il frate si era rivolto perché gli tirasse su quattro muri da metterci dentro un salone di riunione, una sala per dar da mangiare ai poveri e poco d’altro.  L’ingegner Palazzoli presentò un lavoro semplice ed economico, che però aveva agli occhi di Padre Ernesto un errore sostanziale: era disegnato in una scala così grande da sembrare monumentale e da dar l’impressione di un’opera di proporzioni fuori dal comune. Di conseguenza, secondo il frate, i padri da cui dipendeva per il permesso di iniziare i lavori si sarebbero di sicuro spaventati di fronte a quell’apparente imponenza. Avrebbero pensato che una costruzione simile sarebbe costata un mucchio di denaro e avrebbero negato l’autorizzazione a fabbricare.


Fu così che padre Ernesto e padre Berardo (appena passato ad affiancarlo: era stato fino a quel momento segretario del provinciale Cornelio Baj), di notte, nella loro cella, cominciarono la difficile impresa di ridisegnare il progetto riducendone la pianta, pur mantenendo le stesse misure. Si rendevano conto che spesso l’apparenza conta di più della sostanza. E qui l’apparenza doveva essere quella di un edificio modesto, piccolo, stretto, da costare poco. Naturalmente, i “superiori” sapevano benissimo come stavano le cose, ma capivano il santo entusiasmo di Ernesto e Berardo, e chiudevano tutti e due gli occhi per aiutarli. E quando concessero il via, furono tra i primi a mettersi al lavoro, con tutti gli altri frati subito trasformatisi giocondamente in manovali per la causa comune. Così, fra il generale entusiasmo, l’Antoniano passò e arrivarono gli operai del cantiere, mentre si cercava di dimenticare che il progetto prevedeva una spesa di ventisette milioni e che in cassa non c’era nulla. Poi piovvero i dieci milioni del costruttore Boldrini e sbloccarono la situazione: lo si è già raccontato. Ma l’importante, qui, era descrivere un episodio indicativo dello spirito d’iniziativa e, forse anche, della candida incoscienza, con cui fu voluto e realizzato l’Antoniano e con cui più tardi si diede vita alle sue opere.
Cominciamo con l’Armadio del povero. Si tratta , come è facile capire, di una provvidenza benefica per soccorrere di abiti e di scarpe chi ne è privo. Squadre di frati e di giovani dell’Antoniano battono la città e ritirano dalle famiglie che li offrono indumenti, biancheria, coperte: le cose raccolte sono riordinate, lavate, sistemate in sartoria e distribuite a chi le chiede. Il resto, inutilizzabile, è venduto. Come sviluppo di quest iniziativa è venuta in seguito l’Opera della raccolta, di cui si occupa in modo particolare padre Berardo. Si tratta d’un allargamento del concetto: gli incaricati dell’Antoniano si recano da chiunque voglia liberarsi di oggetti e cose inutili, vecchi mobili, frigoriferi rotti, radio che non funzionano più, cucine economiche, bottiglie e damigiane, carabattole di qualsiasi genere. L’Opera manda a domicilio gli autocarri e il personale necessario, porta via ogni cosa, non si deve pagare nulla. Il materiale è quindi disposto in un capannone, catalogato e diviso a seconda della sua natura: da un lato la carta, dall’altro il legname, dall’altro il ferro, dall’altro ancora il vetro e così via. tutto viene poi ceduto agli acquirenti abituali e il ricavato concorre ad alimentare le iniziative assistenziali. Soltanto di carta, si ammassano circa diecimila quintali all’anno. Diciotto operai lavorano esclusivamente a questo servizio.
La prima casa per i senzatetto costruita dall’Antoniano fu inaugurata nel 1955. I fondi necessari provenivano dalla carità pubblica. Il concetto a cui i frati si erano ispirati era quello di fabbricare alloggi che non fossero squallidamente popolari, ma – come si suol dire – 2di mezzo lusso”: da assegnare a famiglie povere e dignitose per fornire un ambiente che non deprimesse, ma stimolasse a conquistare un decoroso tenore di vita. La prima casa sorse in via Bonafede, in quella che era allora periferia di Bologna ed oggi s’è trasformata in un elegante quartiere residenziale. Furono realizzati dodici appartamenti di media grandezza e vi vennero accolte altrettante famiglie prive di tutto, ma giovani, con figli piccoli, delle quali si intuiva lo sforzo per giungere ad una migliore condizione umana. L’affitto mensile fu stabilito simbolicamente in una lira. Interesserà sapere che, oggi, quelle dodici e altre famiglie hanno vinto la loro lotta contro la miseria. Alcuni dei loro ragazzi si sono laureati a altri frequentano ‘università o le scuole superiori.
Il Pane di Sant’Antonio deriva da un’antichissima devozione bolognese, secondo la quale i fornai della città s’impegnavano a offrire una cert quantità di pane ai bisognosi. Accadde che nel 1951, durante l’alluvione del Polesine, quando in Emilia traboccò il Reno e invase le campagne, i frati dell’Antoniano si recassero sui luoghi per vedere come fosse possibile aiutare in qualche modo le popolazioni colpite, e di cosa avessero bisogno subito. S’accorsero che avevano bisogno di cibo, soprattutto di pane. Nessuno panificava più, i negozi erano allagati, i mulini devastati. La gente mangiava la galletta portata dai militari con le barche. A questo punto padre Ernesto riuscì a mettere insieme una colonna di cinquanta autocarri per recare soccorsi e provviste. Fra queste, in primo luogo il pane: e a fornirlo provvidero i fornai di Bologna, spontaneamente, impegnandosi a darne finché fosse necessario, nel nome di Sant’Antonio, come i loro antichi predecessori. Nel 1955, riprendendo l’antica tradizione, i frati chiesero di collocare in ogni negozio una gerla dove chiunque comprava pane poteva lasciarne un po’ per i poveri della città, accanto a quello donato dagli stessi fornai. Ogni giorno, da allora, arriva all’Antoniano il pane per la Mensa del povero, come attraverso i salvadanai distribuiti ai bambini giungono i risparmi dei piccoli da destinare alla beneficenza e a umili, o anche umilissime, opere di carità.
Il frate che si occupa in modo particolare dell’assistenza e del contatto con i poveri è padre Benedetto. Il suo nome al secolo è Silvio Dalmastri: un pezzo d’uomo agile e aperto, di quarantasei anni, nato a Pianoro in provincia di Bologna, bruno, schietto, tifosissimo della squadra della sua città e della “nazionale”, sostenitore di Rivera, avversario di Valcareggi, esperto in cose del cinema al punto che potrebbe tranquillamente presentarsi (se ne avesse voglia) al “Rischiatutto”.
Padre Benedetto viene da una famiglia numerosa: sei fratelli, di cui il maggiore anche lui frate francescano. È laureato in teologia e insegna alla scuola teologica del convento di Sant’Antonio di Bologna, dipendente dal Pontificio ateneo antoniano di Roma. Oltre che dell’assistenza si occupa anche della programmazione del cinema, inaugurato il 15 febbraio 1955 con il film “Torna a casa, Lassie”.
L’attività di padre Benedetto si esplica nel contatto quotidiano non solo con i poveri che si appoggiano all’Antoniano, ma anche con quelli che per diverse ragioni non vengono a chiedere direttamente ai frati, e sono aiutati in silenzio e discretamente. Non tutti infatti sono in grado di frequentare la Mensa o di ritirare presso l’istituzione gli aiuti e il resto. Molti poveri sono vecchi, malati, altri hanno un pudore che gli impedisce di mostrare la loro miseria, altri ancora non hanno il coraggio di chiedere, o non sanno come chiedere. Oppure sono frenati dall’orgoglio portato da una antica condizione agiata che rende più pietoso il loro stato odierno. I frati dicono che sono questi i veri poveri: e ad essi la loro carità si indirizza nel riserbo, ma con fraternità profonda. Così padre Benedetto provvede ad aiuti mensili in denaro, veri e propri modesti stipendi, spediti a soccorrere misere pensioni, insufficienti per vivere; oppure invia a casa di vecchiette incapaci di muoversi cibi e indumenti, gli stessi che ogni giovedì pomeriggio chiunque può passare a ritirare di persona all’Antoniano. Ci sono quattrocento famiglie bisognose iscritte nell’elenco posato sul tavolo di lavoro dl frate. La sua porta è aperta a tutti e tutti possono andare a trovarlo, esporgli i propri bisogni, chiedere. La sola cosa di cui questo frate si vanta è di conoscere di persona, uno ad uno, i poveri della provincia di Bologna. E a ognuno di aver dato qualcosa.

Passione

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